Storia di un diario negato
in mano a giudici distratti
di ADRIANO SOFRI
Repubblica, 5 marzo 1999
È VERO: le sentenze vanno commentate soprattutto dopo
averne letto le motivazioni. Io l'ho fatto tutte le volte, e anche
questa volta. Ecco il commento.
L'ordinanza contiene una enormità banale quanto risolutiva:
il vero scivolone in cui il diavolo del caso, o del pregiudizio,
ha messo lo zampino. Ma prima di arrivarci, vediamo il percorso
dei giudici.
Venticinque volte complotto
Nel corso di undici anni la mia difesa, e io stesso, non solo
non abbiamo impiegato la parola né la nozione del complotto,
ma abbiamo esplicitamente e argomentatamente respinto l'una e
l' altro, in linea di principio e di fatto. Di principio: ho sempre
pensato che sia molto meglio non vedere un nemico dove c'è
che vederlo dove non c'è. Di fatto: il complotto era l'escogitazione
semplificatrice (e rincretinitrice) cui i nostri accusatori volevano
comodamente ridurre l'intreccio annoso di bugie, errori e difese
di errori, falsificazioni, manipolazioni, partiti presi e calcoli
di potere che hanno via via fabbricato la nostra persecuzione.
Nell'istanza di revisione presentata dalla nostra difesa, la parola
complotto non figurava mai. Ebbene, l'ordinanza della Corte d'appello
che la rigetta si regge su questa affermazione di fondo: che noi
abbiamo puntato sulla teoria del complotto, e che essa non è
stata provata.
Nel compiere questa acrobazia interpretativa, l'ordinanza bresciana
scrive (le ho contate) 25 (venticinque) volte la parola complotto,
e qualche volta, per variare, la parola congiura.
L'unica volta in cui cita un brano della nostra difesa a sostegno
della sua lettura, il giudice bresciano sceglie l'espressione
"un perverso intreccio", che per lui - e solo per lui
- vale evidentemente come sinonimo di complotto. Questo è
l'impianto dell'ordinanza.
Astratto e concreto
A pagina 13 dichiarano che, conformemente al principio ribadito
dalla Cassazione, la valutazione delle nuove prove "deve
essere condotta in astratto e non in concreto (il grassetto è
dei giudici) nel senso che, assunti come veri i fatti prospettati
dal richiedente, l'incidenza delle nuove prove, sole od unite
a quelle già valutate, deve essere tale da giustificare
l'emissione di una sentenza di proscioglimento".
Passano 11 pagine, e l'ordinanza, che sta esaminando la testimonianza
di Luciano Gnappi, dopo aver riconosciuto che "non è
lecito negarne il carattere di novità", scrive testualmente:
"Va pure ammesso che, in astratto, la prova offerta può
essere giudicata idonea... a ribaltare la condanna... Tuttavia
si tratta anche di una prova manifestamente infondata per la sua
intrinseca debolezza... Ciò che ha colpito negativamente
questo collegio è stata l'evidente fumosità di una
testimonianza che, se pure astrattamente idonea a suscitare dubbi,
in concreto appare manifestamente priva dei canonici requisiti...".
È lecito dimenticarsi a pag. 24 di quello che si è
proclamato a pag. 13, e anzi capovolgerlo?
Visto che ci siamo, leggiamo perché al collegio la testimonianza
è parsa così debole. Il teste Gnappi, scrive il
collegio, ha dichiarato che "gli è sembrato con certezza
(un'altra palese contraddizione intrinseca: come può una
cosa "sembrare" "con certezza"?) di riconoscere
l'omicida nella terza foto...".
Il giudice trova contraddittoria un'espressione del linguaggio
colloquiale il cui significato è, per un lettore imparziale,
univoco: essendo evidente che l'accento va su quel "con certezza"
e non sul "mi è sembrato", qui usato, come succede,
a significare "ho pensato", "ho creduto",
ecc. Ma, ammesso che il cavillo linguistico cui il giudice si
è compiaciuto di cedere abbia una giustificazione, quello
che andrebbe fatto è di ascoltare davvero il teste, in
un dibattimento, e sentire da lui un'interpretazione un po' più
oggettiva.
(Se al collegio si applicassero pedanterie del genere, le occasioni
fioccherebbero. A pag. 43 il giudice ha scritto che "tutte
le sentenze di condanna si sono a lungo dilungate").
La liquidazione di un teste non solo, per questa parte, nuovo,
ma anche clamoroso, viene invece compiuta dal giudice a distanza.
Nel processo si sarebbe dovuto sentirlo. Qui lo si dichiara inattendibile
e ininfluente per via medianica: come se un medico bresciano formulasse
una diagnosi su un paziente imbarcato a Capo Horn, e irraggiungibile.
La cosa è ancora più notevole perché, appena
sette pagine dopo (pag. 32), a proposito di una consulenza tecnica
svolta per la difesa su una serie di documenti scritti della compagna
di Marino, Antonia Bistolfi, compreso un impressionante diario
mai prima esaminato, il collegio se la prende proprio con le diagnosi
a distanza:
"Il giudice della revisione si è chiesto quanto possa
essere attendibile una diagnosi così drastica, fatta senza
alcuna visita diretta della paziente...".
Torniamo a Gnappi, a riscontro del quale la difesa ascoltò
anche un altro teste, il signor Cucurullo, che era con lui al
momento dell'episodio del riconoscimento fotografico (parliamo
del maggio 1972). Secondo il giudice bresciano, Cucurullo avrebbe
ricordato che Gnappi aveva riferito di una fotografia, mentre
Gnappi ha ricordato di aver riconosciuto una fotografia fra altre
che gli erano state mostrate. Questa è la causa che inficia
la testimonianza (peraltro riconosciuta, a differenza dai giudici
milanesi, dotata del "requisito della novità")
al punto di rinunciare ad ascoltarla?
Così rigoroso nel castigare contraddizioni capitali che
sono invece ovvie per un verso (26 anni dopo) e ininfluenti per
l'altro, il giudice bresciano ha scritto (pag. 19), a proposito
di Luciano Gnappi e Bruno Cucurullo, che "si tratta di persone
già sentite nel dibattimento". Ma no! Bruno Cucurullo
non è mai stato sentito da nessuno, prima che, poco più
di un anno fa, sulla scorta della testimonianza del signor Gnappi,
l'avvocato Sandro Gamberini andasse a rintracciarlo e sentirlo
(com'era autorizzato a fare dal codice).
Il giudice bresciano è tanto severo con gli altri, quanto
distratto con se stesso. A pag. 40 parla del "libro del Sofri",
dove si tratta del "libro di Marino" - lapsus da evitare.
A pag. 58, a proposito della perizia da noi presentata secondo
cui i due proiettili su cui è stata condotta l'indagine
(e poi fatti sparire, come tutti i corpi di reato) non appartenevano
alla stessa arma, e che quindi furono precocemente manipolati,
il giudice bresciano fa mostra di aver capito che, secondo noi,
a sparare furono due persone! ("Non vi è alcuna emergenza
processuale che giustifichi l'ipotesi di una seconda arma e di
un secondo sparatore": grazie!).
A pag. 61 la distrazione del giudice è un po' più
ripugnante, dove scrive: "...la morte dello studente Tiziano
Serantini". Nemmeno da morto ammazzato, Franco Serantini
si è guadagnato, in queste sentenze, il proprio nome.
Fogli che volano
Veniamo all'enormità rivelatrice dell'ordinanza bresciana.
(pagg. 30-35). Si esamina la nuova prova costituita da un diario
autografo della compagna di Marino, Antonia Bistolfi, dell'aprile-maggio
1988 (si ricorderà che noi fummo arrestati alla fine di
luglio di quell'anno). Il diario, mai esaminato, è rilevante
per due, e anzi tre ragioni. La prima e più banale, che
documenta uno stato d'animo, e interessi e attività, del
tutto diversi da quelli che la Bistolfi ha sostenuto nel processo
come propri in quel periodo della sua vita - angoscia, minacce,
panico... La seconda, è che una propensione delirante della
Bistolfi, già evidente in documenti entrati nel processo
- per esempio, le sue pazzesche lettere a me indirizzate - si
rende più minuziosamente analizzabile in un documento così
ampio e "spontaneo". La terza, più risolutivamente
puntuale, è che una pagina di quel quaderno dimostra, com'è
stato limpidamente riconosciuto dalla Cassazione, e addirittura
già dai primi giudici della revisione, a Milano, che Antonia
Bistolfi era a parte della "autoaccusa" di Marino sull'omicidio
Calabresi. Evidente a chiunque partecipasse agli atti processuali
senza pregiudizi, e cardine della mia difesa (chi vuole può
rintracciare il mio libro "Memoria"), l'intreccio stretto
fra versione di Marino e versione della Bistolfi era stato caparbiamente
negato dalle sentenze di condanna, le quali erano arrivate alla
fine a dichiarare che la Bistolfi, del tutto ignara di ogni connessione
fra Marino e l'omicidio Calabresi, costituiva col suo racconto,
un autonomo riscontro a Marino stesso.
Dunque ad accusarci non sarebbe stato solo Marino, ma, del tutto
indipendentemente, la sua compagna, da lui tenuta all'oscuro di
tutto fin dopo la "confessione" e il nostro arresto!
La verità evidente, che Marino e Bistolfi avevano filato
insieme e d'accordo la storia poi sfociata nella nostra imputazione,
dopo essere stata negata, veniva addirittura ribaltata, facendo
di lei la testimone a conferma di lui, e moltiplicando miracolosamente
per due l'unicità del nostro accusatore.
Così l'ordinanza bresciana riassume il punto: "Scopo
dell'istanza (difensiva) è dimostrare l' esistenza di un
castello accusatorio creato dal Marino con la consapevolezza della
Bistolfi, la cui testimonianza è stata invece utilizzata
dal giudice della condanna per riscontrare l'attendibilità
del Marino, suo convivente". L'ordinanza cita poi la pagina
contenente i riferimenti a Marino e il "Commissario",
che ho ricordato sopra, sbagliandone (per tre volte!) l'intitolazione:
"L'unificazione della Verga e dell'Utero" (il testo
dice: "Purificazione"). I giudici della revisione milanese,
pur ammettendo che il documento prova che la Bistolfi aveva mentito
negando di essere stata a conoscenza della storia di Marino, avevano
concluso che la novità non bastava a cambiare il giudizio
sulla credibilità di Marino. Pretesa assurda, che la Cassazione
aveva seccamente e articolatamente censurato.
L'ordinanza bresciana comincia col dare ragione, anzi!, più
che ragione, alla Cassazione (dunque a noi).
"Infatti, riconoscere falsa la deposizione della Bistolfi
sul punto avrebbe costituito una palese contraddizione col giudicato
(nel quale appunto si era ritenuta l'eliminazione di "qualsiasi
sospetto derivante da asseriti parallelismi di comportamento tra
Marino e la Bistolfi"). Non solo! Si sarebbe finito anche
per apportare un apprezzabile contributo alla tesi difensiva del
sospetto coordinamento delle condotte dei coniugi che la sentenza
a sezioni unite della Corte di Cassazione aveva segnalato come
dato idoneo a fondare dubbi sulla attendibilità".
Il giudice bresciano continua affermando che la prova ha il "carattere
di novità".
Insomma: il giudice bresciano dice che la Cassazione ha ragione,
e che se fosse vero quello che pare dimostrare il diario, verrebbe
sconfessata la sentenza di condanna (anzi, ne verrebbe addirittura
sorretta l'idea di un complotto...).
Ma allora, perché una prova nuova, e dalle conseguenze
ritenute così influenti, non ha prodotto nessun effetto?
State attenti, per favore.
"Perché il brano...è privo di data (il grassetto
è del giudice) e nulla lascia supporre, come invece si
pretende da parte degli istanti, che esso possa seriamente essere
fatto risalire al maggio del 1988, pochi mesi prima, cioè,
della confessione del Marino.
Non occorrono certo approfondite valutazioni di merito per prendere
atto che quello che viene definito "diario", è
costituito in realtà da una serie di semplici fogli separati
e non rilegati, semplicemente spillati (ma da chi?), né
dello stesso tipo (non tutti, ad es., sono a quadretti).
Dei brani contenuti in tali fogli, ventiquattro recano una data
precisa (si va dal primo che reca la data del 26 aprile 1988 all'ultimo,
dell'8/6/1988), mentre solo quello in esame...ne è privo,
il che costituisce un dato certamente equivoco.
Non trattandosi di un "diario" rilegato, ma di semplici
appunti vergati su fogli separati, non è inoltre possibile
dedurre dalla collocazione materiale del foglio contenente il
brano (i precedenti e i successivi risalgono al mese di maggio)
alcun elemento certo sull'epoca in cui esso è stato scritto,
sicché, al riguardo, possono farsi le più svariate
congetture, non potendo neppure escludersi che addirittura potesse
essere stato concepito in epoca successiva alla confessione del
Marino.
Ma proprio a seguito di una siffatta palese incertezza deriva
l' impossibilità di definire quella offerta dagli istanti
una "prova" certa ed univoca, sicché va rilevata
la manifesta infondatezza della richiesta istruttoria".
C'era, dunque, una prova nuova e fortemente efficace, ma non si
può utilizzarla perché a) non se ne conosce la data;
b) perché non è certo che si tratti di un diario;
c) perché non è certo che appartenga allo stesso
blocco di fogli, trattandosi di pagine sciolte e non rilegate.
Volete la soluzione? I giudici di Brescia non si sono accorti
che i fogli che tenevano in mano erano le accurate fotocopie (a
colori, come l'originale) del quaderno. Il quale non solo esiste,
ma ha la copertina di cartone, la spillatura originaria, tutti
i fogli quadretti di computisteria; quaderno in possesso della
difesa, e dal quale la difesa stessa aveva tratto le copie per
i diversi usi (perizie, ecc.). Nell'originale, la pagina in discussione
è puramente e semplicemente il retro di un'altra delle
pagine consegnate!
Dunque non solo se ne conosce perfettamente il contesto e la data,
ma è l'altra facciata di uno stesso dei fogli esaminati
dal collegio. Cioè del quaderno-diario (che altro nome
può avere un quaderno in cui giorno dietro giorno una persona
trascrive le proprie annotazioni intime?).
L'enormità dell'equivoco è tale da sollecitare i
commenti più sfrenati, da cui peraltro mi asterrò.
Osserverò sobriamente che le ipotesi sono in sostanza due.
O il collegio bresciano ha creduto davvero che il foglio in questione
non fosse databile e attribuibile, e dunque si è sbagliato,
e il processo va rifatto, sulla base delle giuste premesse dello
stesso collegio. (Anche se viene da chiedersi come mai questo
azzardato dubbio è venuto solo ai giudici bresciani, e
non era venuto né a quelli milanesi, né al Procuratore
della Cassazione, né ai giudici della Cassazione). Oppure
il collegio, dopo aver formulato premesse inevitabilmente giuste,
è ricorso all'argomento dei fogli sciolti e della data
incerta cedendo alla forza del partito preso e del pregiudizio,
e allora, preso atto che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi,
si è sbagliato, e trovi la voglia di correggersi. Se no,
rigiudicherà la Cassazione.
Più in generale, l'episodio - romanzesco nella sua banalità:
c'è sempre il piccolo dettaglio che tradisce - suggerisce
una lettura allarmata dell'intero metodo seguito dai giudici.
E anche una risposta non retorica, ma concretissima, ai molti
e autorevoli appelli a valutare le sentenze dal loro contenuto.
È quello che ho appena fatto. Accomodatevi voi.